“È certamente arduo determinare dei confini netti, in grado di tracciare una mappa esaustiva dell’articolato e multiforme percorso creativo di Federico Fellini. Cantore del tempo, dell’oblio e del ricordo, poeta dell’assurdo, aedo di un onirismo accanito e trascendente rispetto alle volgari pastoie del quotidiano, il regista riminese è fautore di un cinema capace di ergersi come opera d’arte totale, in perenne conflitto col reale e le sue derive. Quindi, non esistono componenti accessorie nei suoi film, ma tutto si coagula all’interno dell’immagine, per supportarla, contraddirla, blandirla, o magari per scardinarne le sue implicazioni più ordinarie. Ecco allora che suoni, rumori, musiche e parole forniscono una vera e propria tessitura acustica del visivo, per moltiplicarne le possibilità espressive.
Proprio nell’evoluzione dell’uso della parola all’interno della filmografia felliniana, è possibile individuare un tratto pertinente non solo della poetica, ma anche della concezione estetica e addirittura politica del regista. Al di là delle finalità più comuni dell’elemento verbale/dialogico, come coadiuvante della narrazione o ausilio nella descrizione psicologica dei personaggi, la parola viene assumendo, film dopo film, il carattere di un vero e proprio principio di sconnessione del senso, in cui il moltiplicarsi babelico delle fonti di fonazione induce la straniata sospensione dello spettatore, il suo distacco dal significato e la sua immersione nel significante audiovisivo. In tal modo, la parola diviene puro suono, entità percettiva in dialogo o in conflitto con le altre componenti audiovisuali, scatenando pantagrueliche e disorientanti cacofonie.
Infine va notato come, in tutta la sua carriera, Fellini dia voce ai fantasmi, cioè alle proiezioni della sua memoria e del suo immaginario: di qui la componente più suggestiva e malinconica del suo cinema, che sovente prende la forma dell’aforisma, del monologo interiore, dello stralunato e commovente scambio a distanza (una distanza che il linguaggio filmico tende a dilatare o a comprimere come per magia) fra un presente sordo e rumoroso e un passato irrimediabilmente concluso, anche se mai del tutto sepolto. A fare da controcanto a tale elemento fondativo della poetica felliniana troviamo – specie nella parte finale della sua produzione – la chiacchiera, il cicaleccio pettegolo, il vano dar fiato a parole ormai svuotate del loro senso e della loro capacità evocativa. Non si tratta di una vera e propria catilinaria del regista all’indirizzo del declino comunicativo della modernità (incarnato soprattutto dalla televisione commerciale, in espansione a cavallo fra gli anni ‘70 e ‘80 del secolo scorso), bensì di una perlopiù mesta constatazione di una nuova realtà di fatto, a cui non resta che contrapporre – come avviene nel finale del suo ultimo film La voce della luna (1990) – l’auspicio del silenzio.”
– Gian Giacomo Petrone, consulente artistico Festival della Parola 2020 –